Arte astratta anni Sessanta. Qualche appunto.
Luca Pietro Nicoletti
Fin dai primi anni del secondo dopoguerra le ricerche astratte italiane hanno mostrato una spiccata vocazione internazionale, anzi hanno dichiarato esplicitamente, tramite una intensa attività espositiva, di ambire all’elaborazione di un linguaggio internazionale che unificasse le proposte provenienti da più parti d’Europa sotto le insegne del “concretismo”, magari anche della sua possibile applicazione alla “sintesi delle arti”. Fu subito chiaro, più che nella stagione delle avanguardie storiche, che quella poteva essere la bandiera di una unità culturale che superasse la distinzione di identità nazionali caratteristiche delle istanze informali e, ancora più, quella declinazione della pittura di segno e materia che oscillò fra le definizioni di “ultimo naturalismo” e “astratto concreto”. Se in questo caso, come esemplifica la parabola artistica di Ennio Morlotti, si trattava di stabilire un legame forte fra pittura e territorio - come se un certo modo di dipingere fosse impensabile senza il contatto diretto con un certo paesaggio e gli umori di una terra natale – le istanze concretiste si erano poste sotto l’insegna di un’arte che potesse fare da complemento alla pari dell’architettura moderna o che, più in generale, potesse interpretare al meglio l’arte di una società fortemente industrializzata: la scelta di procedere per moduli ripetuti sempre uguali a se stessi, come in una possibile reiterazione all’infinito, è in fondo figlia del principio di moltiplicazione infinita dell’oggetto. Allo stesso modo, la scelta di adottare supporti atipici, come le materie plastiche, non faceva che riconfermare questo nesso fra pittura e nuovi orizzonti del mondo artificiale creato dall’uomo.
La questione, però, non è così semplice, e il passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta fa emergere proprio la difficoltà di riunire tutte le ricerche sotto un’unica insegna: quell’utopia, che era passata dalla mostra di Arte astratta e concreta in Italia del 1951 alle pagine di “Art d’aujourd’hui. Art et architecture”, si era infranta di fronte a una realtà molto più sfaccettata e plurale. Bisogna infatti prendere in considerazione due fattori di fondo. Da una parte la rapida metamorfosi di molti artisti nel corso di un decennio, specie quelli nati negli anni Venti, che dal problema del segno passarono a interrogarsi sul valore della superficie, optando magari per la monocromia. Un pittore come Carlo Nangeroni, per esempio, prese le mosse dalla pittura di gesto, come Emilio Scanavino, ma nel giro di pochi anni si era trasformato in un pittore di moduli circolari, tutto giocato sulla variazione di un unico elemento geometrico basilare. Sulla stessa via si colloca Guido Strazza, in cui la trasformazione da pittore gestuale ai rigori della geometria fu persino più austera e assoluta, plasticamente monumentale.
Turcato, ma soprattutto Sanfilippo e Accardi, rimasero invece fedeli all’idea di segno e del suo accumulo come elemento strutturante del campo pittorico, come se la superficie si dilatasse sotto l’effetto di un maggiore o minore addensarsi di piccole notazioni simili a una scrittura. Nel corso del decennio, però, come mostra in modo lampante il caso Accardi, quel segno sarebbe diventato più largo e autonomo, fino alla fluttuazione su un supporto trasparente, come se non ci fosse più un piano d’appoggio per quei segni, che andavano così a guadagnare uno spazio autonomo.
C’è però anche una generazione più giovane, nata nel corso degli anni Trenta, che non visse quella stagione di inizio anni Cinquanta, trovandosi in agenda problemi formali completamente diversi. Uno sguardo sugli anni Sessanta fotografa situazioni in movimento, in cui molti, pur partendo insieme, arrivarono in tempi diversi a chiarire le proprie ragioni espressive. Satta e Guarneri, per esempio, si presentano già chiaramente instradati sulla via del monocromo, sebbene con differenti gradi di rigorismo, dal più ascetico e strutturalmente fisso (Satta) a quello più aperto e disponibile a un tonalismo atmosferico (Guarneri); mentre per Ugo La Pietra sarà un passaggio inedito, momentaneo e del tutto inaspettato ripensando agli sviluppi successivi. Se un pittore come Mario Raciti sembra già approdato alla sua marca pittorica visionaria fondata su certi automatismi di scrittura pittorica, Valentino Vago è ancora in cerca di qualcosa, prima di dare alle sue notazioni minimali su un campo via via sempre più rarefatto un andamento elegante e filiforme. Claudio Olivieri, invece, non aveva ancora compiuto quel salto che lo porterà a far vibrare le superfici con una dissolvenza continua e rarefatta, optando per una fitta trama di segni che al contempo danno una struttura compositiva e l’idea di una superficie in movimento, che si flette ondulata sotto un insistito tratto colorato.
Eppure, non va mai dimenticato, gli anni Sessanta rimangono contrassegnati dalla “pop art”, e di quell’idea di un’arte più semplice e di immediata lettura. Non si può escludere, anzi è spesso abbastanza evidente, che anche l’arte astratta ne abbia risentito: il coefficiente “pop”, da alcuni celato più che da altri, ha chiarito le forme e dilatato il campo, dando al segno e alla tavolozza una leggibilità esplicita e meno sofisticata. D’altra parte, anche certe esperienze delle avanguardie storiche, che avevano già aperto la via dell’astrazione, come i Futuristi, potevano essere lette in una chiave “pop”: nel mito della macchina, finita la stagione di interventista ottimismo tecnologico, si era insinuato un punto di ironia, accanto ai colori sgargianti, completamente artificiali, dei nuovi prodotti industriali.